Fatta la Calabria, bisogna fare i calabresi

biancofioremichaeladi Isidoro Malvarosa - "In culo ai negri di Harlem, non passano mai la palla, non vogliono giocare in difesa, fanno 5 passi per arrivare sotto canestro, poi si girano e danno la colpa al razzismo dei bianchi. La schiavitù è finita 137 anni fa, e muovete le chiappe, è ora!"*

"Io vengo dal Trentino Alto Adige, purtroppo si sa che a Reggio Calabria l'ambiente è quello che è." Sono queste le parole di Michaela Biancofiore, deputato di Forza Italia, intervenuta durante la trasmissione Piazza Pulita a proposito del caso Matacena-Scajola. Sono queste le parole pomo della discordia, scintilla dell'orgoglio calabrese, estrapolate dal contesto (quello certamente discutibile) della tesi difensiva della parlamentare di centro destra.

L'indignazione del giorno dopo. Quel "purtroppo si sa che a Reggio Calabria l'ambiente è quello che è" che ha fatto sobbalzare sulla sedia i meridionalisti da salotto. I testoni che sul sottosviluppo demagogicamente ci campano, ma poco fanno, alla resa dei conti, oltre mettersi in posa, presenziare a inutili convegni e impegnarsi in continue campagne elettorali. Giù dunque post velenosi, foto di paesaggi, l'immancabile chilometro più bello d'Italia, prese di posizione e comunicati stampa, esempi di buone pratiche di persone oneste. Come se avessimo la coda di paglia, ci toccassero un nervo scoperto, come se ce ne fosse realmente bisogno. Sostanzialmente, rispondere spade su bastoni e pretendere di fare briscola. Vincere cambiando argomentazioni, distogliendo l'attenzione. Come se bastasse il sole, il clima e il mare a nascondere una realtà evidente fatta di politici collusi, aria pesante e Comuni infiltrati e sciolti.

Come se il problema fosse sempre fuori: la Lega, i Savoia, il nord, Camillo Benso conte di Cavour e non i calabresi. E mai i calabresi.

La Biancofiore ci dice che l'ambiente a Reggio è quello che è, allude a cattiva amministrazione, 'ndrangheta e clientele, e noi ci inalberiamo e il massimo che sappiamo fare è invitarla al mare. Negare a oltranza, oltre ogni logica ed evidenza. Solo noi possiamo lamentarci, i diretti interessati, lavare i panni in casa. Uscire in strada con i lividi e pretendere che gli altri se la bevano, che va tutto apposto tra le mura familiari, è solo una caduta, un banale incidente domestico. Che non ci vengano a dire che ce le siamo date fino a perdere i sensi, fino a diventare ottusi e ciechi.

Si indigna il politichino locale quando Tosi, con un senso dell'umorismo che spazza via centocinquantanni di meridionalismo, invita i suoi concittadini a non frequentare calabresi. Si indigna perché ha qualche problema con l'autoironia, poverino: usa poco l'emisfero destro. Si incazza e non capisce di fare il gioco del provocatore, di servirgli un assist a porta vuota per dimostrare una volta ancora i nostri complessi di inferiorità latenti. E poco importa che la finta delibera del sindaco veronese sia diretta alla Gabanelli e a Report e non ai calabresi. Non si coglie neppure che, a conti fatti, quella battuta è il più alto contributo alla causa meridionale dell'ultimo decennio. Non c'è l'elasticità mentale per arrivarci.

Ce l'abbiamo nei geni: alcune parole, specie se accostate, ci fanno saltare. Sud, mafia, sottosviluppo, donna, lavoro, famiglia, violenza, ignoranza, bigotteria.

Ci indigniamo, perché nel vittimismo sguazziamo da generazioni. Noi poveri, brutti, nani e cattivi, è così che ci dipingono e non siamo, agnelli sacrificali dell'Unità d'Italia e del miracolo economico. Vittime di scelte politiche ed economiche nazionali, dunque nordiste. Che negando le nostre responsabilità, il nostro coinvolgimento, riusciamo nell'impresa impossibile di passare dalla parte del torto. È la nostra autocommiserazione che cancella il crimine, che ci fa passare da vittime a paranoici. Ossessionati dalla nostra condizione secolare, non un passo in avanti oltre il recinto nel quale ci siamo relegati.

Carboni bagnati, negazionisti, avvocati delle cause perse. Senza lontanamente rendercene conto, avvaloriamo le tesi che cerchiamo di combattere. Ci pungolano e noi reagiamo ciecamente, senza dare una chance all'indifferenza. Una seppur lontana forma di sicurezza e impassibilità. Come il bambino con gli occhiali che, mostrando di prendersela, sarà chiamato quattrocchi per tutta la vita. Come il pazzo che dicendo di non essere pazzo dà conferma e riprova della sua follia.

Perché non è vero che a Reggio l'ambiente è quello che è.

Insomma! Non è vero che abbiamo un Comune sciolto per infiltrazioni mafiose, diversi politici delle ultime amministrazioni indagati o in manette, un presidente di Regione condannato in primo grado, giudici collusi, bancarotte fraudolente, pensioni di invalidità regalate, clientele alla luce del sole, convivenze ambigue, zone grigie, record di truffe ai fondi comunitari, più forestali che alberi, uffici pubblici drogati di personale, promesse di lavoro in cambio di voti, soldi in cambio di voti, passi carrabili in cambio di voti, spese al supermercato in cambio di voti, uno scandalo a settimana, decine di arresti al mese, politici che nonostante tutto continueremo a votare, diritti scambiati per favori, porte alle quali andiamo sempre a bussare.

Però abbiamo il sole, il clima e il lungomare e guai a sentirci dire certe cose.

A sentire la verità da bocche che non sono le nostre, a provare a capire il perché di certe, continue, affermazioni. Sono pazzi gli altri, non è vero niente, l'idea che hanno di noi è sbagliata. Si sono inventati tutto da principio, tutto è calato dall'alto, noi non c'entriamo, abbiamo solo subito.

Che non ci passi in mente che forse è arrivato il momento di metterci la faccia, tirarci in mezzo, aprire gli occhi, combattere i demoni dell'inadeguatezza, del senso di inferiorità, della rassegnazione, ridere di noi, emanciparci con l'autoironia, chiudere con i rancori, guardare avanti, normalizzarci, muovere le chiappe.

Che in fondo dall'Unità d'Italia sono passati solo centocinquantanni.

*La 25ª ora, film, monologo.